Vibrazione di luce. Gessetto su carta, 70×70 cm, 2004
Dopo le ricerche sulle strutture seriali, dopo la vertigine dell’illusione cinetica, Paolo Scirpa ha virato i suoi esperimenti verso il piacere del tratto guidato dalla mano proponendo ora una serie di pastelli ad olio, pur non smentendo l’esperienza accumulata studiando sistemi e strutture che combinavano la forma-luce con la forma-spazio. Le composizioni astratte dell’inizio degli anni Sessanta avevano lasciato via via posto alle accumulazioni, agli Habitat e ai primi Ludoscopi del decennio successivo. Fino ai lavori attuali, Paolo Scirpa ha mantenuto tale predilezione per il momento, per la scansione in sequenza dell’elemento spazio-temporale.
Con i Ludoscopi, Scirpa si era appropriato di un territorio definito: un segmento di parete, un cubo da porre in verticale o in piano. All’interno, costruiva strutture di tubi al neon; per ogni elemento stabiliva un’inclinazione e, con il mutare delle angolazioni degli specchi entro cui racchiude l’assemblaggio, chiedeva allo spettatore di coinvolgersi nel gioco annunciato. La luce diveniva così, insieme, fattore costruttivo e percorso da indagare. Intanto, il piano del cubo (o dell’oggetto ludoscopico) che la visione incontrava era a sua volta finestra dove i rapporti trasparenza/opacità, ombra/riflesso, scavo/emergenza mostravano complesse ed impensate dinamiche. Il vetro freddo condensava l’euritmia calda del neon aprendo orizzonti e punti di fuga singoli e innumerevoli, precisi ed evanescenti. Le strutture tubolari così organizzate possono infatti essere seguite ad ogni intersezione e riflessione dapprima con lo sguardo e quindi mentalmente, oltre i limiti oggettivi dell’opera stessa: parabole e rotazioni proseguono fino alla vertigine; il risultato è il fascino estatico dell’illusione di ciò che è visibile ma non percorribile fisicamente, di ordini armonici e proporzioni altre.
Coinvolto lo sguardo nello spazio intensificato, regrediente verso il nulla, è suscitato il desiderio di percorrere nuove dimensioni, ma la superficie, come stagno increspato da un sasso, rimanda ulteriori geometrie di una terza dimensione, tra la sensibile verificata dall’occhio e la mentale. Uno spazio non ancora metafisico (semmai iperfisico), anch’esso delineato con esattezza di rapporti, misure tensioni. Il rigore e l’equilibrio perseguiti da Scirpa nel delineare questo luogo al termine della percezione si contrappone alla banalità e all’incongruenza del mondo apparente. A sua volta, la ripetizione ossessiva così individuata si dimostra peculiare di una quotidianità sempre più compressa in disumani tempi e luoghi.
Individuato il dilemma, l’artista lo analizza in base alle possibilità aperte dalla tecnologia al linguaggio espressivo. Avendo sempre volutamente mantenuto l’autonomia del manipolare, scomponendo e decostruendo i feticci elettromeccanici del nostro tempo e ricombinandone gli elementi costitutivi, Paolo Scirpa ritorna senza strappi alla narrazione su percorsi bidimensionali.
La produzione grafica ha sempre accompagnato l’evoluzione della ricerca formale di Paolo Scirpa: le acquetinte, le linoleumgrafie, le litografie, le serigrafie, gli esperimenti di lastre progettate al computer (a cui, in particolare, si è dedicato dal 1970) e, ora, i pastelli ad olio su carta, prospettano una gamma di prove della validità del metodo costruttivo già sotteso alle geometrie dei Ludoscopi, oltre la dimensione del gioco combinatorio. Dallo spazio ripartito e moltiplicato sceglie una porzione di sequenza regolare e ne estrae una parte, evidenziandola sul foglio. Anche sul piano ripropone comunque il problema nodale dell’ambiguità percettiva fra immagine bidimensionale e visione tridimensionale. La sensazione di trovarsi di fronte ad una porta aperta su un mondo ulteriore permane davanti ad ogni foglio: uno spazio prelude sempre ad un altro, il tracciato dei segni si fa codice del percorso, non diretto ma per scarti. Come nella nostra percezione del mondo esterno, questi sentieri si intrecciano e si annodano, procedono per strappi, per impennate, suggerendo continuità e rivelando ulteriori labirinti.
All’interno di tanto elaborate tracce, ossessivamente strutturate e sovrapposte, appunto la ripetizione diviene ridondanza percettiva fino alla saturazione per chiusura ai dati esterni.
Proiezioni su due dimensioni, dunque, che coniugano, il ductus simbolico della scrittura con architetture pulsanti: il colore, onnipresente, da confronto mnemonico con la realtà sensibile della luce s’intensifica in ritmo caleidoscopico di segni.
Con le prove grafiche, il senso più autentico della ricerca di Paolo Scirpa si pone su un piano dichiaratamente concettuale. L’opera non si risolve in se stessa, non si propone alla mera fruizione ottica, anzi pretende un tipo di attenzione che, a partire dalla decifrazione dell’implicita logica costruttiva, approdi, tra poetico e fantastico, ad un’intuizione spaziale di là dalla forma. La ricerca di reazione da parte dell’occhio tende a liberare quest’ultimo dalle consuetudini, dai vizi dell’assuefazione allo spazio fisico.
Rompere l’ordine dei riscontri troppo familiari significa però anche suscitare l’insondabile desiderio di un cammino iniziatico che rimandi dall’esterno della comunicazione al segreto dell’interiorità. Come un mandala tibetano, i fogli tracciati da Paolo Scirpa, con la loro mutevole leggerezza, diventano sguardi sull’altrove e ci avvertono che nella nostra era tecnologica non tutte le valenze dello spirito sono ancora consumate. Intorno sanno coesistere, a ricordarcelo, ordini virtuali diversi, infinitamente estesi e potenzialmente eterni. Parma, dicembre, 2003