Valmore Studio d'Arte, Vicenza, 2007. Alberto Veca presenta la mostra personale
Il vuoto illusorio all’infinito, e il pieno effettivamente percepito, anche tangibile: questi i due apparentemente antitetici percorsi che Paolo Scirpa conduce da anni; solo all’apparenza inconciliabili perché il primo è conseguenza, effetto del secondo: il vuoto realizzato come “apertura”, come via d’uscita possibile rispetto a una chiusura soffocante, a volte anche claustrofobia.
Lavorare su piani contrastanti vuol dire attribuire un senso “forte” all’opera plastica, non episodica registrazione di un sentimento o uno stato d’animo quanto la funzione di segnale linguisticamente pregnante.
Così possono coesistere nel corso del tempo il ludoscopio – una scatola con le pareti nere e il coperchio trasparente all’interno della quale figure della geometria elementare realizzate in neon si propongono in successione e si specchiano, non importa se realizzato a parete o a pavimento, in grandi quanto in ridotte dimensioni – e, all’opposto, il tabellone consumistico e le sue molteplici varianti, da quella ambientale a quella strettamente oggettuale, un’opera in continuo accrescere realizzata attraverso l’assemblaggio di involucri di merce oggi in produzione e consumo. Non si tratta di stagioni successive, in cui l’interesse si è diversamente orientato, ma di una apertura costante, in continuo progresso ed arricchimento.
Scrivo sul lavoro dell’artista a distanza di un certo lasso di tempo da una precedente riflessione partendo dalla constatazione che la parola, almeno la mia,conosce un’usura che le opere plastiche per fortuna non hanno. Forse perché scrivere è in qualche modo una mediazione fra un lavoro plastico, indubbiamente e certamente influenzato dalla contingenza ma certo meno di un testo, e un eterogeneo, anche ipotetico pubblico che legge.
Allora – era il1980 – ero interessato al rapporto tra oggetto reale, nella sua fisicità, e la sua traducibilità nella bidimensione della carta, un esercizio e una riflessione intriganti per chi si interroga sul rapporto tra percezione dell’oggetto e illusione visiva sulle tracce di Semiologia del messaggio oggettuale di Corrado Maltese che costituisce ancora un punto di partenza inevitabile. Mi sembra che l’urgenza del problema rimanga tale ancor oggi, forse perché in questo rimando si gioca una parte non insignificante del lavoro dell’artista fra “presentazione” e “rappresentazione”, un interrogativo fondamentale per l’esperienza del secolo scorso, almeno per quella più avvertita e interessata agli interrogativi dell’agire plastico.
Vi sono altre evidenti e felici contraddizioni nel lavoro a partire dalla constatazione, ovvia ma di un certo interesse, che gli strumenti adottati sono assolutamente eterogenei, dal materiale tecnologico al disegno, all’incisione e alla pittura declinata con un ventaglio significativo di soluzioni plastiche, all’assemblaggio: una ampiezza operativa dovuta probabilmente anche dall’intenzione di sperimentare materiali e operatività diverse alla ricerca di una padronanza, di un a gestione sostanzialmente affine, per valutare se, a dispetto dei cambiamenti, il ragionamento mantiene una sua coerenza.
E una chiave possibile credo sia quella della ricerca di una “unità di misura” con cui mettersi in relazione con ciò che ci circonda, sfruttando alternativamente le regole dell’ordine geometrico come quelle dello stoccaggio della merce, una standardizzazione che viene riproposta straniata dalla sua funzione originale.
L’impegnativa letteratura critica che in questi anni ha confortato il lavoro dell’artista, cui occorre dare una lettura non frettolosa per la pluralità dei punti di vista, ha di volta in volta sottolineato questo o quell’aspetto del lavoro: a me sembra importante, come sottolineato in esordio, ripetere quel nesso di causa/effetto, fra una percezione quale effettivamente è e quale potrebbe essere, visto che il vuoto e la profondità sono allusi, moltiplicati all’abisso.
Emergono prepotentemente le due radici storiche cui Scirpa fa dichiarato riferimento: da una parte l’esperienza del nuovo immaginario proposto dall’esperienza futurista e delle Avanguardie dei primi del secolo scorso; dall’altra l’esperienza Dada. Ma entrambe le radici sono, per così dire, rinnovate e rilette con una riflessione e una sperimentazione che esclude la semplice citazione o la dipendenza estetica, costituendo eventualmente un sostrato da cui emanciparsi ma non può essere cancellato.
Ne può essere un segnale evidente la serie di progetti di “interventi ambientali” che Scirpa ha negli anni collezionato, spesso partendo dall’immagine architettonica più ovvia, quella della cartolina illustrata, quindi uno stereotipo comunicativo che non viene dissacrato come potrebbe ma reinterpretato togliendo e sostituendo un “pieno” dalla fisionomia conosciuta o immaginabile, con lo sfondamento suggestivo del ludoscopio in questa fase divenuto “finestra” rispetto a una cornice che assume il ruolo di acquisito stereotipo quando il gioco sembra essere proprio quello di mettere in dubbio, di ribaltare la visione comune, frettolosa, per inserire qualche interrogativo dove tutto sembra essere acquisito e scontato.
Si vuol dire che l’intervento non ha alcunché di dissacrante, di ironicamente sostitutivo del monumento, ma vuol diventare centro di attenzione perché anche ciò che è alla periferia, oltre la cornice possa essere di nuovo letto con attenzione. Questo ruolo di “cattura interesse” si può tradurre in progetti e figure che, partendo dalle immagini doppie e ambigue del ludoscopio, indubbia matrice di una serie diversificata di lavori e di esperienze, possono assumere l’aspetto dell’intervento ambientale architettonicamente praticabile dall’uomo, come il “labirinto” o il “teatro”, due figure anche queste fra loro in antitesi fra vocazione all’infinito dell’una e qualità centripeta dell’altra, che l’artista anche recentemente progetta in attesa di una possibile realizzazione non virtuale o cartacea ma fisicamente e materialmente percepibile.
Nell’intervallo di questa esperienza Scirpa sottolinea con la pittura e il disegno alcuni aspetti possibili: la dimensione dello spazio e del tempo diventano allora variabili punti di vista e distanze da cui il sistema delle figure messe in azione acquista una temporanea immagine complessiva: sono “istanti”, quasi fotogrammi di una esplorazione continuamente cangiante al variare del nostro modo di percepire l’oggetto. Vi è un’opera che mi piace citare in questo percorrere forzatamente sintetico, anche per episodi, il complesso lavoro dell’artista, una litografia a un colore del 1965 intitolata L’industria e pubblicata nell’antologica alla Galleria Civica d’Arte Moderna di Gallarate al numero 2 delle “Tavole introduttive”: in essa vi sono alcune suggestioni di figura nell’illusione di uno spazio profondo che diventeranno consueta frequentazione nel lavoro successivo.
Paradossalmente, per misurare l’infinito, occorre individuare un modulo che possa essere iterabile, può essere anche il catalogo “infinito” delle confezioni con cui si possono costruire i muri: il primo per la fantasia, il secondo per la memoria.
Milano, gennaio 2007