Spazi di luce

Di Vittoria Coen

14 Maggio 2016

Ludoscopio. Espansione curva – raccordo, 1988

“Il futuro non è forse un’avventura soprattutto interiore? Mi pare importante continuare ad impegnarsi a scoprire la propria vocazione e la propria coerenza opponendosi al caso”.
Paolo Scirpa


Una delle opere che più mi hanno colpito sfogliando una importante monografia edita da Mazzotta su Paolo Scirpa è una divertente immagine in bianco e nero con un bambino che si è arrampicato su Labirinto cubico, una struttura in ferro (1998/2007) di un metro per un metro per un metro.
Potrebbe sembrare strano, cioè, che la mia attenzione nei confronti di un artista che ha fatto della luce e del suo rapporto con essa con e nello spazio, si concentri prima di tutto su questo lavoro, prima ancora di parlare di neon o di fotomontaggi architettonici. Il labirinto in questione mi ha riportato alla memoria opere e artisti che, come Scirpa, hanno abbracciato una poetica dello spazio e del tempo, a mio avviso, affine. Mi riferisco, ad esempio, al Metrocubo di infinito di Pistoletto, e al Metrocubo di terra di Pino Pascali, due opere profondamente concettuali che si inverano attraverso l’utilizzo della geometria simbolica, il quadrato, che insieme con il cerchio e il triangolo, hanno dato vita nell’arte alle sperimentazioni più diverse, da secoli, se pensiamo, per esempio, a un potentissimo Altare della Buona Fortuna di Goethe.

Tutto il lavoro di Scirpa è una continua ricerca della spiritualità. E’ un epos fatto di tappe, di serie, di avventure plastiche e non, di proiezioni e immagini, di segni e interventi di luce che danno una particolare vitalità all’intero percorso dell’artista, che nella sua carriera è stato accostato ad altri poeti della luce come il minimalista Dan Flavin.

Mi torna alla mente un importantissimo lavoro come Ludoscopio praticabile a raccordi di spazi-luce illusori n. 138. Percorsi comunicanti (a+b), 1989, (c+d) 1999, un’opera che permette l’interazione attiva del pubblico, che ci porta a fare una momentanea considerazione sul concetto di luce nella storia dell’arte.
La luce è uno dei cardini dello studio, anche nell’arte del passato; la luce analizzata e studiata dai maggiori artisti che ne furono interpreti inequivocabili.
Pensiamo ai fiumi di inchiostro della critica sulla luce in Caravaggio, che fa emergere i soggetti da un buio assoluto, dando loro una profondità che, se possiede un’apparente naturalezza, racchiude in sé il sapiente artificio di un’analisi meticolosissima, degli effetti di luce ed ombre, costruiti come in uno studio cinematografico. Penso alla luce di alcuni autoritratti di Rembrandt da giovane, che insiste su particolari apparentemente irrilevanti, come ciocche di capelli, il lobo di un orecchio, e lascia velato lo sguardo, e anche alla luce divina che irrompe dall’alto spaventando Baltassar e i suoi commensali, mentre illumina gioielli e abiti preziosi denunciandone lo sfarzo. Penso alle mille versioni della Cattedrale di Rouen di Monet con le mille sfumature della giornata, dall’alba al tramonto, in un’ossessiva ricerca di quell’”aria che sta in mezzo” di leonardesca memoria.
Mi viene in mente anche la luce simbolico-esoterica-millenarista di William Blake, ne La scala di Giacobbe, illuminata a giorno. E potremmo andare avanti ancora fino a ritrovarci oggi di fronte ad una scelta radicale, tipica soprattutto di certa arte concettuale. L’idea di racchiudere, imprigionare, per così dire, la luce, che non è più lo sforzo, la pulsione verso la sua rappresentazione, ma diventa linguaggio esso stesso della sua costruzione “aniconica”. Ciò appare in alcuni lavori di Joseph Kosuth, come in quelli del già citato Flavin.

Dalle prime Composizioni astratte degli Anni Sessanta, ai Ludoscopi e ai Tabelloni consumistici fino ai vari Progetti d’intervento e ai fotomontaggi spettacolari (uno fra tutti Lo specchio ustorio, 1987/2004), nel lavoro di Scirpa reinventare lo spazio diventa una missione, poetica, a tratti, politica e fondamentalmente spirituale.
In queste sue parole vedo, in un certo senso, la summa del suo fare:…“Da un punto di vista problematico, ho sempre pensato di condurre la mia ricerca indagando la realtà estetica della nostra società tecnologica e consumistica; con ciò si è delineata in me una tendenza sperimentale che mi ha portato a compiere un itinerario denso di scelte rigorose”…


Paolo Scirpa: l’artista che alla fine degli Anni Sessanta condivide con altri artisti (uno fra tutti Fabro) a Milano la vita e la ricerca di quegli anni di fermento culturale, Optical Art, Arte Cinetica, sperimentazione sui materiali, studio delle percezioni visive, rimane al tempo stesso legato idealmente anche alle sue origini siciliane, e, simultaneamente, è cittadino del mondo, con importanti esperienze all’estero e riconoscimenti internazionali.

Anche in questa sua personale a Padova Scirpa conferma la freschezza e l’originalità di un lavoro sempre coerente e ricco di stimoli. Un’opera quale Sfere in espansione, del 1974, attrae la mia attenzione per la suggestione ottica che produce. Le sfere di plastica si moltiplicano per l’effetto degli specchi in un caleidoscopio cromatico di luce come se si diffondesse energia nell’aria.
Mi colpisce in particolare modo anche l’opera Ludoscopio ottagonale del 1989, realizzata con legno, neon bianco e specchi, per la profondità che suggerisce, per quell’idea di spazio visivo, architettonico, infine cosmico che genera nello spettatore: un invito alla riflessione, ma che determina una forma di straniamento percettivo, un lasciarsi andare per pensare, un invito alla libertà dello spirito.
Nella serie degli Equilaterali, infine, la didascalia spiega la poetica: componibili modulari cromopercettivi a geometrie variabili. Architetture, spazi cosmici, e geometrie variabili, in cui la parola “variabile” racconta già il percorso, le sensazioni, le “vibrazioni”, dei colori, dei segni, con un’intensità del tutto personale.
In queste opere vi è una incredibile convergenza, come se i singoli elementi, messi insieme, fossero attratti da un’unica energia che li muove, li aggrega, li fa convergere verso un unico scopo.

I tanti aspetti, le forme, i materiali usati nel lavoro di Paolo Scirpa, sono come parte di un DNA della mente, oltre che degli occhi, spirito vitale nel serissimo gioco dell’arte, della creazione, ma anche dell’uomo e delle sue scelte responsabili, proprio in opposizione a quel caso di cui ci parla l’artista stesso, così come “dell’infinito nello spazio simulato”, in una tensione poetica e culturale che ha da sempre attraversato quella ricerca incessante.

Forse le combinazioni sono infinite, ed è per questo che l’impegno di Scirpa è instancabile, ricco di progetti, interventi in luoghi naturali così come nelle rovine antiche, o nei paesaggi delle metropoli contemporanee. Fotomontaggi, progetti e proiezioni plastiche si alternano in questa mostra invitandoci a guardare l’opera e noi stessi.