Paolo Scirpa: riqualificazione del modulo pubblicitario

Di Domenico Cara

01 Febbraio 1974

Con Domenico Cara, Arte Struktura, Milano, 1973

L’anatomia dell’oggetto come verifica dello stile pubblicitario di un contenitore, ha trovato in Paolo Scirpa un nuovo ideografo estremamente razionale, antiromantico, che si porta sulle attitudini di un dadaismo il quale – attraverso i relitti del consumo pubblico e privato – rimette in causa le cose collettive, un approssimativo ottimismo della sopravvivenza dell’immagine nella sua postuma inutilità. Egli si serve di scatolette svuotate dai rollini fotografici, di flaconi e contenitori farmaceutici, prodotti dalle più strane sigle pubblicitarie e dalle più fantastiche e ordinate colorazioni, con alfabeti del marchio di fabbrica, usati, la cui assuefazione pubblica in effetti non potrebbe riuscire a promuovere delle categorie a-posteriori della bellezza della forma e dell’invenzione marketing.

Il meccanismo del consumo (è ciò che Scirpa vuol dimostrare con le ambientazioni di minicontenitori) può diventare un avvenimento estetico organizzato in una dimensione di realtà diversa, riassunta a elemento di immagine geometrica, rivivente nella serialità produttiva e intanto continuità di cubi e di parallelepipedi, variabili per cromie e segni di manualità grafica e pubblicitaria, ma coordinati in un accogliente modulo di operazione inventiva, capace di diventare la cospicua tentazione euritmica per una realtà figurativa e ottica inedita, la forma di un linguaggio umano senza equivoci o enigmi mentali. Di tutta una serie omogenea di flaconcini egli ne coglie l’aspetto analitico, il messaggio sommario, organizzato in discorso continuo, obbiettivizzante, non fraintendibile.

Un medium contemporaneo e visualistico, la cui destituita funzione di piena naturalità, è riportata come schema superstite di esistenza comune ai fasti dell’arte e dell’immaginazione grafica, con una ricchezza di vibrazioni, un’indagine non solo linguistica ma di coscienza dell’uomo, il cui rigorismo non  è mai abbastanza negativo per riscoprire l’emblematicità degli eventi speculativi in atto e la possibile comunicazione dell’ambiguità quando essa si ambienta nell’area della rappresentazione simbologica, in quella fase rivelativa che da oggetto inutile e svuotato delle proprie morfologie interne, diventa geometria dei fatti tecnologici e dell’industria, della programmazione di un’epoca, la quale riscopre i limiti medesimi dell’obsolescenza di un oggetto, la sua felice scacchiera dalla quale emergono inesorabilmente le forme collegate a un emblema pubblicitario, pronte per un gioco orgiastico o una divertita e imparziale utopia.

Paolo Scirpa fonda così una tensione descritta a larga istituzione esecutiva, verifica la ricostruzione di valori corrispondenti sia alla gamma delle colorazioni, sia al documento malizioso e prospettato nella misura di una ristrutturata soluzione plastica (non statica dell’universo industriale).

Poiché il mondo prolifera di emozioni disumanizzate e di essenze semiotiche nell’elaborazione d’immagini, di maschere, di superfici straordinarie, questo aspetto di una ossessione ludica e direttamente organizzata al di là dei problemi di consumo, promuove la dinamica di una integralità variata o ripetitiva, con un’originale stratificazione di sezioni espressive, gli stereotipi di un mondo moderno che progetta, produce e infine annulla.

Scirpa – già promotore di interessi costruttivi e grafici a livelli urbani e di proporzionali habitat – richiama questa possibilità di rapporto estetico con una suggestione psicologica o indicativa, cui potremo accostare i tessuti musicali di Luciano Berio (Sequenze per flauto e Scambi musicali di Henry Pousseur come formulazioni estetiche di campo di possibilità della forma di uno spazio). C’entra la banalità, la presenza dei segni e delle forniture quotidiane, non deteriorati per fare del new-réalisme a buon mercato, rimitizzando ironicamente gli elementi del destino civile e l’alienazione della bellezza diventata lusinga per via di persuasori occulti. La mitologia di tale spettacolo è reinserita attraverso un’acquisizione consumistica e un processo intellettuale, quasi metafisico, indeformabile, legato all’evocazione che ancora ispira il senso della realtà e la purezza della denuncia moltiplicata, brulicante tuttavia di eventi minimi e integrati in un tessuto poetico di armonia visiva e di corrispondenti trasparenze singolari.

Un’idolatria non convenzionale di certo, i cui effetti non permettono un uso soltanto demistificatorio o interrotto.
Milano, febbraio, 1974