Paolo Scirpa, operatore nell’ambito dell’arte programmata

Di Riccardo Barletta

01 Aprile 1985

Con Riccardo Barletta, 1987

Fin dal 1973 Paolo Scirpa ha creato, con un sistema di specchi e di luci al neon, uno strumento di notevole importanza percettiva nonché psichica. Si tratta di una specie di “pozzo”, entro il quale lo spettatore vede, in fuga infinita, sfuggirgli prospetticamente delle linee parallele. Sta di fatto che questo “buco” non ha fondo. E’ come una perforazione infinita nelle viscere della terra, ma è anche una caverna o un ambulacro, oscuro quanto misterioso. La luce fredda del neon, talvolta brillantemente colorata, non fa altro che potenziare la sensazione di spazio; non uno spazio aereo, bensì uno spazio notturno, viscerale; uno spazio che dà l’angoscia per la vertigine che gli è propria, essendo costituito dalla provocazione di una scolarità che conduce al nulla. In  termini formali, è l’esatto opposto della ziggurat (edificio scalare che conduce, mediante una fuga spaziale, all’infinito del cielo). Paolo Scirpa ha costruito molte di queste sue “ziggurat negative”; le fa funzionare sia sul pavimento sia sulle pareti; alcune di esse hanno un  percorso o buco semicircolare. Antropologicamente, il buco nero di Scirpa è un simbolo sia della caverna ancestrale, sia dell’horror vacui che ne promana per noi civilizzati. Siamo dunque dinnanzi a una provocazione profonda, che si serve delle tecniche dell’arte artificializzante del settore cinetico-programmato. Ma c’è un di più.
Scirpa ha introdotto questa sua “ziggurat negativa” su foto di centinaia di architetture soprattutto storiche. Facciate di templi, cupole, fiancate in bugnato e via dicendo. Ne è nato così una panorama di rivitalizzazione del materiale architettonico ed urbanistico. In particolari, l’impatto provocato, genera, per l’angosciosità implicita all’archetipo di Scirpa, una drammatizzazione del monumento; o meglio, una introduzione di un “inconscio” nella sua apparenza stereometrica o stilistica.
Per finire un parallelo col lavoro di Panseca. Mentre là vige il complesso paterno e la tensione è alla sublimazione della sfera, qui vige il complesso materno e la tensione è alla regressione dell’architettura verso un vuoto primordiale.
Milano, aprile, 1985