Paolo Scirpa

Di Alberto Veca

01 Maggio 1980

Omaggio a Kandinsky, 1979. Legno+neon azzurro, giallo e rosso+specchi. Museum Bagheria, Palermo

Gli esiti grafici, o comunque bidimensionali, a cui è recentemente giunto il lavoro di Paolo Scirpa discendono o comunque nascono in stretta connessione con le sperimentazioni tridimensionali che per anni hanno costituito l’interesse principale d’azione.
Dipendenza ma non traduzione, o trascrizione di una dimensione oggettuale oltretutto ai limiti della sua affermazione, come ha esattamente rilevato nel 1976 Corrado Maltese (Gala International, n. 76) quando definisce le scatole specchianti come “oggetti dove si pratica l’abolizione del limite fra il reale e l’illusorio”: la dipendenza fra tridimensione e bidimensione ha allora caratteristiche diverse dalla constatazione di una resa bidimensionale di un evento tridimensionale.
E la relazione si può forse trovare nella presenza, negli esiti oggettuali e grafici, di un costante ancoraggio dell’opera di Paolo Scirpa alla memoria che contemporaneamente coinvolge la figura vera e propria, o il sistema di figure utilizzate e il modo, lo strumento, attraverso cui la figura viene comunicata.
Memoria della figura: triangolo, cerchio e quadrato con i loro colori che una tradizione ormai acquisita ha fatto corrispondere (rispettivamente giallo, blu, rosso) sono le figure di base da cui Scirpa parte per una rotazione e combinazione in alcuni esiti, per una analisi elementare in cui viene variata la successione cromatica in altri esiti. Ma si tratta di figure che evocano o rimandano a quanto si costituisce come icona di riferimento: il quadrato, il cerchio e il triangolo vengono infatti indicati attraverso un sistema concentrico di perimetri dallo spessore degradante verso il centro e dagli angoli smussati (nel caso del quadrato e del triangolo evidentemente).
Lo scarto fra la figura esatta, quella cioè a cui facciamo riferimento per interpretare l’artefatto, e l’artefatto stesso si risolve nell’acquisizione della radice imitativa del grafo rispetto all’oggetto reale, alla successione di tubi di neon che costituiscono appunto la memoria, per così dire, personale di Scirpa. Non sono quindi figure idealizzate, immateriali, quelle da cui discendono le ripetizioni e le sovrapposizioni grafiche, ma figure dotate di circostanze materiali e anche di leggibilità precise, individuabili.
Da questa dipendenza mi sembra discenda il secondo carattere della memoria figurale: i perimetri concentrici sono oggetto nei confronti di uno sfondo, eppure l’accostamento successivo della rotazione, della sovrapposizione, o della stessa variazione cromatica dei segni producono un trauma fra la costanza,  la ripetizione della figura e la figura, la forma e il colore risultante.
La memoria allora gioca come possibilità di ripercorrere a ritroso uno sviluppo apparentemente o operativamente sistematico, ma nei suoi esiti estremamente non omogeneo: grado di leggibilità e variazione risultante sono allora le intelligenze che vengono messe in atto da chi guarda la successione delle immagini, le sue aberrazioni formali o le diverse illusioni di profondità, di tridimensionalità in aggetto che la variazione comporta.
Da questa attività di verifica e di sorpresa del riguardante mi sembra discenda una ulteriore verifica della memoria che Scirpa sollecita, la memoria dello strumento di riproduzione. Risulta evidente come solo astrattamente si possono fare distinzioni fra figura e strumento, e che spesso su questa differenza teorica si è equivocato non poco: è certo però che nel caso di Scirpa l’adozione o l’adesione a una tecnica di riproduzione costituisce la motivazione stessa dell’operare.
E’ quindi nella storicità dell’espressione, nell’espansione e nei diversi esiti che un mezzo ha avuto, al di fuori, e all’interno del linguaggio artistico, che occorre cogliere l’intenzione comunicativa di queste immagini,la loro volontà di constatazione, di presentarsi nella loro integrità richiedendo una corrispondente lettura da parte dell’osservatore.
Milano, maggio, 1980