La novità saliente, nell’ultima attività di Paolo Scirpa, è l’attenzione per una dimensione urbana, che si concreta in progetti di intervento in scala appunto urbana, fuori delle circoscrizioni della tela, o dell’oggetto.
Data la prospettiva latamente “costruttivistica” in cui da tempo va svolgendosi il lavoro dell’artista, potrebbe apparire legittimo chiedersi se ci si trovi di fronte ad una riedizione del majakovskiano “le strade sono i nostri pennelli, le piazze le nostre tavolozze”, nell’adesione ad una sorta di imperativo sociale riecheggiante il noto decreto rivoluzionario sovietico del 1918 secondo il quale “ artisti e scrittori sono tenuti a prendere senza indugio pentole di colori e a illuminare, a dipingere con i pennelli della propria maestria, le anche, la fronte e il petto delle città, delle stazioni e delle mandrie di vagoni ferroviari eternamente in fuga”. Ma la risposta non può che essere assolutamente negativa. E non perché Scirpa non aspiri ad operazioni tese ad agire attivamente sul sociale. Anzi, proprio per il peso di siffatta determinante intenzionalità, da lui coscientemente perseguita. Piuttosto perché egli crede con Marcuse che l’arte, “ nella misura in cui si fa parte della vita reale, perde la trascendenza che la oppone al valore costituito: resta immanente in quest’ordine, unidimensionale, e perciò soccombe ad esso” : che, cioè, la diretta compromissione con quel “reale” sul quale si vuol agire finisce col vanificare i propositi critici.
Per Scirpa, ancora come per Marcuse, “ la relazione tra arte e rivoluzione è un’unità di opposti, un’unità antagonistica”, giacché “l’arte obbedisce a una necessità e ha una libertà che sono tutte sue: non quelle della rivoluzione”, e può di conseguenza “esprimere il suo potenziale radicale solo in quanto arte, nel linguaggio e nell’immagine propri,che invalidano il linguaggio ordinario, la “prose du monde” .”
Ecco, quindi, i caratteri strettamente specifici degli interventi di Scirpa, mai toccati dagli equivoci di molta “arte sociale”. L’alternativa contestativa è cercata nel ricorso a codici che contrastano la comunicazione urbana consueta, che le si oppongono. L’accattivante proporsi “in avanti” della veduta urbana viene contraddetto dall’intrusione di voragini inquietanti, che ne disturbano lo stesso ordinato disporsi secondo rassicuranti assi prospettici. L’immagine consueta viene coartata, provocando uno piazzamento percettivo, cui sostanzialmente concorre anche la geometricità degli innesti., di una assolutezza che alla franta articolazione del panorama della città si oppone, con esiti ancora una volta inquietanti, perché non riducibili a proposte di pur radicale riorganizzazione urbanistica e quindi ad operazioni cui il fruitore è preparato. Effetti accentuati, se possibile, là dove l’intromissione affonda in un contesto altamente formalizzato, costituito da edifici storici che ancor meno sopportano modificazioni. Tanto più che Scirpa colloca i suoi sfondamenti proprio nei punti nodali, spesso con una sorta di perentoria amplificazione delle strutture date, dei loro ingombri e punti di fuga.
Ne risulta un potenziamento di quegli effetti di programmatica costruttiva ambiguità che negli anni passati, e ancor oggi, l’artista ricerca nei suoi oggetti cinetico-visuali, per i quali Maltese ha efficacemente parlato di “Tunnel, Forno magico, o Crogiuolo o Abisso, dove si fonde l’immaginario col reale, il serio col giuocato, il vero con l’illusorio.” Ciò anche grazie al costante ricorso ad elementi archetipi, richiamo a qualcosa che il contingente travalica: però in un contesto di flagrante fenomenicità, dove lo spazio è sempre al tempo sostanzialmente correlato: e perciò un intenso dialettico rapporto tra essenza ed evento, matrici ancestrali e storia, persistenze e divenire, che consente la fertile coesistenza di ragione e fantasia, progettualità ed inventiva, calcolo e libertà. Con esiti di notevole rilievo e di stringente attualità.
Milano, 1981