Paolo Scirpa

Di Carlo Munari

01 Novembre 1972

La disposizione all’environnement di Paolo Scirpa è sollecitata da una precisa istanza sociologica, dalla volontà cioè di smascherare l’ “ordine” assurdo che irretisce l’uomo contemporaneo, mutilandolo della sua stessa qualità, riducendolo anzi, per usare il titolo del famoso saggio di Marcuse, a una dimensione. Perché è giusta prerogativa della civiltà d’oggi quella di camuffarsi in una divisa all’apparenza razionale, alla quale è assegnato l’ufficio di estremo alibi. Scirpa vi reagisce lucidamente, quasi elevando un appello per la salvazione della superstite humanitas, e lo fa da artista consapevole della efficacia che rivestono, ai fini della comunicazione di massa, non soltanto i media e i materiali di largo consumo ma anche la loro disposizione nel campo spaziale urbano.
Va da sé che egli si è impegnato per lungo tempo in una ricerca orientata sulle possibilità espressive degli elementi geometrici elementari e delle loro combinazioni, ricerca tuttavia che ha fornito esiti degni di nota in quanto non isteriliti nei limiti di una esercitazione alla fine accademica – com’è accaduto a non pochi esponenti della Nuova Tendenza – ma riscattati bensì da un esprit de géométrie che rivelava dell’artista una partecipazione emotiva per repentini scatti emozionali, per interventi segnici o cromatici attestanti l’insorgenza di una inquietudine, di una insofferenza o comunque d’una volontà di fare echeggiare una propria voce interiore.
Ma è al culmine di tale ricerca che Scirpa ha potuto portare a compimento quei macro-oggetti nei quali può esercitare la sua critica sociologica: una denuncia raggelante nella sua  ironia, come nel caso di quell’organismo realizzato con le scatole per confezioni dei prodotti di massa, il quale risuona a mio giudizio come metafora della megalopoli consumistica, là dove, appunto, si attua il trionfo della falsificazione del razionale. Una denuncia, è da aggiungere, che accresce la propria facoltà d’incidenza a livello collettivo in relazione all’intonazione demistificatoria di cui è nutrita.
Levigatezze plastiche, splendori di acciai, specchi ossessivi di smalti e di acrilici, luminescenze improvvise: tutti questi elementi emblematici di un cosmo dominato dalla tecnologia incontrollata e dallo spurio suo figlio, il consumismo, vengono da Scirpa adottati per “costruire” i suoi congegni, cadenzati anche essi nel rigore geometrico che esige la “galera del benessere”.
Si tratta di un  ordito preciso sino all’ossessione, di un ordine calcolato fino all’esasperazione. E poi? (Anche Ruskin, dopo un’ampia diagnosi della situazione urbanistico-architettonico-sociologica del suo tempo, in “Le Sette Lampade dell’Architettura” si chiedeva: Che avverrà dopo?)
Scirpa non può dare una risposta: a lui è concesso soltanto di far risuonare un allarme a monito degli uomini civili e perciò pensosi del proprio e dell’altrui destino. E tuttavia questa risposta egli l’adombra nel momento in cui inserisce nel parco due eleganti, lievitanti, quasi aerei congegni di plastica, l’un  verde e l’altro rosso, in un gesto che conserva un margine di ottimismo, o di speranza, volendo indicare nell’armonia fra la tecnica e la natura – fra natura naturalis e natura artificialis – l’unico approdo possibile, l’unica mèta da perseguire.
Un gesto sul quale occorre invitare alla meditazione.
So bene che l’opera di Paolo Scirpa meriterebbe un vaglio ulteriore, soprattutto per quanto concerne la sua capacità di identificare i materiali in relazione alle loro intrinseche facoltà evocative e di idearne le forme in conseguenza mai trascurando la logicità della proposizione e, si dica pure, l’eleganza formale della sintassi. Ma premeva, in questa sede, piuttosto, dar conto della significazione complessiva dell’opera.
Mi limiterò quindi, in conclusione, ad osservare che il discorso di Scirpa è attuale. E che è anche discorso complesso, articolato in una pluralità di ipotesi operative. Ma che è soprattutto un discorso obbligante, nel quale la maturità linguistica dell’artista coincide colla sua qualità etica.
Milano, novembre 1972