Marco Menguzzo osserva "Il Teatro e il suo doppio", Thiene (Vi), 2009
Può apparire strano che un artista come Paolo Scirpa, così rigoroso nella scelta del proprio campo d’indagine, così attivo nel cuore di uno dei centri riconosciuti del sistema artistico, e così in linea con alcune tra le maggiori tendenze dell’arte contemporanea, abbia di fatto voluto condurre la sua vita creativa da posizioni assolutamente autonome e indipendenti.
In tutto ha giocato, ovviamente, una componente individuale che perviene al carattere schivo e al contempo forte dell’artista, e chi conosce Scirpa sa che questa ha svolto effettivamente un ruolo non secondario nel suo operoso isolamento (che pure ha conosciuto tutti gli aspetti sociali e socializzanti, ad esempio, dell’insegnamento in un’accademia prestigiosa come quella di Brera), ma d’altro canto non si può neppure attribuire l’immagine solitaria della sua ricerca a pure questioni personali, visto che comunque Scirpa ha avuto il coraggio e la lungimiranza di lasciare la natia Sicilia per trasferirsi a Milano, dove la ricerca artistica risultava essere più viva e più aderente a quanto andava accadendo nel mondo. Ancora, non si può neppure dire che la critica non si sia accorta di lui, se solo si scorre il numero davvero alto di studiosi – e non secondari – che si è occupato del suo lavoro nel corso degli anni…. Ciò che invece è apparso maggiormente distratto è piuttosto l’elemento del mercato, della diffusione del lavoro attraverso il canale delle gallerie, che allora hanno rischiato meno di quanto avrebbero potuto e dovuto per il solo fatto che, all’epoca della sua maturità – agli inizi degli Settanta del XX secolo – questo tipo di lavoro poteva apparire isolato rispetto al trend del momento. A questo punto, qualcuno potrebbe ricordare che poco sopra si è detto che il lavoro di Scirpa era in linea con alcune delle maggiori tendenze contemporanee, e che quindi ciò che si sta affermando ora – vale a dire un sostanziale isolamento del lavoro – è in contraddizione con quanto detto poc’anzi, ma non è così : il mercato ha bisogno del momento, non si concede dilazioni né temporali né culturali, e spesso il metodo di “cogliere l’attimo” è in aperta contraddizione con ricerche che al contrario necessitano di tempi propri, e che spesso mutuano da necessità interiori. Queste necessità, talvolta si incontrano con necessità collettive, con quello “Zeitgeist”, quello “spirito del tempo” che fa sì che una ricerca sia condotta contemporaneamente da più artisti – o scienziati, o filosofi… – o da gruppi formatisi attorno a quel nucleo problematico, e che in tal modo viene portato alla luce e alla ribalta proprio dalla forza del numero, dalla capacità collettiva di evidenziare un problema e di porre/imporre le proprie soluzioni; tuttavia, è anche possibile – e ciò avviene nella maggioranza dei casi – che singole individualità scelgano di agire in qualche territorio espressivo per necessità interiori, per pulsioni irrinunciabili, contribuendo a definire e ad arricchire ulteriormente linguaggi già individuati, ma non pienamente formulati, senza tenere assolutamente conto degli andamenti tendenziali o di moda.
Così, a guardare anche quei primi lavori con la luce di Paolo Scirpa – e con essi tutti quelli per cui lo conosciamo come artista “della” luce – si potrebbe dire che la sua ricerca appartiene a quella branca ottico-cinetica dell’arte, che aveva conosciuto i maggiori fasti nazionali e internazionali tra il 1959 e il 1965/66, ed era poi lentamente declinata con la caduta di fiducia nella possibilità di una società “percettivamente” migliore, e nell’ascesa di altre tendenze, come la Pop Art – che ne era agli antipodi – o l’Arte Povera, che sfruttava maggiormente l’aspetto di contestazione sociale globale. Ora, a prima vista il lavoro di Scirpa effettivamente apparterrebbe in toto a quella ricerca, ma non a quella stagione: in altre parole, l’aspetto ottico-cinetico del suo lavoro non avrebbe coinciso col momento di sviluppo e di attenzione di cui invece artisti e gruppi dell’arte cinetica italiana – ricordiamo il gruppo T o il gruppo Enne, o anche il gruppo MID – avevano goduto a pieno titolo, avendo loro stessi portato l’attenzione sugli aspetti percettivi del mondo e sul metodo di percezione del mondo stesso da parte dell’osservatore. In effetti, il lavoro di Scirpa in questa direzione giunge con appena qualche anno di ritardo: è il 1972 quando Scirpa, ormai trasferitosi a Milano, abbandonata quasi definitivamente la sua iniziale componente astratto-geometrica che aveva caratterizzato il suo lungo apprendistato siciliano, pensa di utilizzare non tanto la rappresentazione della luce quanto la luce stessa nelle sue opere.
Un breve passo indietro consente di seguire i momenti di formazione dell’artista siciliano, la cui prima partecipazione a una collettiva risale nientemeno che al 1953, quando era appena diciannovenne. Tuttavia, si tratta sempre di mostre relativamente locali per quanto allora importanti – il percorso di un giovane artista era scandito da tappe più precise e più lente di quanto non accada oggi -, almeno sino alla sua partecipazione alla IX Quadriennale Nazionale d’Arte di Roma, al Palazzo delle Esposizioni nel 1965: qui il suo linguaggio astratto, rafforzato anche da una robusta pratica di incisione, appare già maturo, se non del tutto autonomo. L’artista oscilla tra lirismo vicino all’informale e un’astrazione più definita, non immemore neppure di certe reminiscenze naturalistiche: l’incisione – allora il suo strumento preferito – lo costringe in un certo senso a disegnare e quindi a delineare, a segnare forme e perimetri, ed è qui che appare quell’idea di segno circolare – un “sole”, un “habitat” ? – che racchiude il magma della vita, rappresentata allora con la metafora di una specie di incontro fra forma naturale e costruzioni artificiali umane. Quell’habitat circolare, quel sole Scirpa lo porta con sé anche quando, trasferitosi a Milano, dove insegna all’Accademia di Belle Arti di Brera insieme a Luciano Fabro – vi terrà una delle cattedre di Pittura dal 1992 sino al 2001 – comincerà ad esporre regolarmente (la sua prima personale in assoluto è del 1967, la prima milanese del 1969) e a precisare sempre più il suo linguaggio. In questi anni, immediatamente precedenti l’autentica “svolta” che Scirpa attuerà coi “ludoscopi”, la sua ricerca viaggia su doppio binario, che testimonia di un interesse a vasto raggio: da un lato, l’analisi sempre più stringente del linguaggio della percezione, attuato secondo forme sempre più rarefatte e minimali, dall’altro, la constatazione di un mondo sempre più in preda ad ansie produttivistiche, a bisogni indotti, a deliri consumistici. E’ l’attenzione a questa condizione sociale che fa produrre a Scirpa le prime vere opere totalmente “sue” (non che le precedenti non lo fossero, ma queste costituiscono una “cifra” personalissima, inequivocabile): sono i grandi “oggetti”, quasi dei caleidoscopi che moltiplicano su superfici specchianti una miriade di scatole di prodotti, di involucri vuoti, assemblati insieme a costituire una sorta di città in miniatura, di skyline contemporaneo – non a caso, il primo di questi lavori si chiama “Megalopoli consumistica”, del 1972 -, dove il messaggio è sin troppo chiaro, e la città dell’uomo è diventata la città del consumo, e dove l’uomo stesso si identifica col consumo, anzi, col consumismo, che ne è la degenerazione. Di questo soggetto Scirpa si occuperà sempre, anche a distanza di molto tempo, con poche e mirate opere che, a partire dai primi anni Novanta, prenderanno l’aspetto di vere e proprie installazioni, assumendo cioè dimensioni tali da occupare fisicamente e idealmente uno spazio importante.
Tuttavia, è la genesi di questi lavori, anzi la loro primissima intenzione che svela la personalità di Paolo Scirpa: certamente si può ricordare che gli anni della prima realizzazione anticonsumistica del nostro artista coincidevano con gli anni della contestazione più dura e radicale della società capitalistica in Occidente, ma le sue motivazioni sono più profonde, vengono da molto più lontano. In tutto il suo lavoro, infatti, Scirpa immette una forte tensione etica, un “dover essere” delle cose di matrice addirittura religiosa. E’ lui stesso che ricorda di aver incontrato giovanissimo Chiara Lubich, la fondatrice del movimento ecumenico dei Focolari, ascetica ed energica propugnatrice dell’idea dell’ “unità” della spiritualità umana, che ritroviamo più tardi, trasfigurata e metaforizzata, nella “poetica della luce” dell’artista, ma anche nella percezione dell’errore dell’uomo quando si abbandona all’ingiusta voracità del consumo. Anzi, a ben vedere questa accezione morale è molto più diretta e dichiarata in questo ciclo di opere che non nell’altro, dove l’aspetto dell’analisi del linguaggio sembra prevalere, ma con tutta probabilità – è anche la nostra tesi – è nei “ludoscopi” e in tutte le opere ad essi collegate che la tensione etica immessa nel lavoro da Scirpa riesce a trasformarsi meglio in forma.
I “ludoscopi” sono opere tridimensionali, illuminate da elementi geometrici di neon, realizzate a partire dal 1972, – contemporaneamente, cioè alle indagini sul consumismo- e nel corso degli anni successivi sono stati accompagnati da una serie di lavori – oli e acrilici su tela – che ne sembrano essere il ritratto, la rappresentazione bidimensionale. Sin dai primi “ludoscopi” l’artista ha ridotto sostanzialmente a tre forme geometriche – il quadrato, il cerchio e il triangolo – tutto il suo alfabeto, e fa muovere queste forme, ripetendole all’infinito nello specchio, nello spazio: è uno spazio reale, perché l’opera è tridimensionale, le luce è generata da uno strumento luminoso, ma continua ad essere, anche, uno spazio mimetico, rappresentato, quasi bidimensionale. E, sostanzialmente, illusorio. Proprio Scirpa mi ha fatto notare recentemente, stupendosi di questo riconoscimento (conoscere di nuovo, vedere ciò che si era già visto) come nei cerchi concentrici di neon si ritrovi la forma della scalea, della gradinata del teatro antico, del teatro greco, quel teatro che lui stesso aveva visto, anzi vissuto, nella natia Siracusa, quasi fosse un imprinting indelebile, una cultura trasformata in biologia, in dna…La forma prescelta si moltiplica in una serie di traslazioni e di incroci che suggeriscono un proseguimento potenzialmente infinito nello spazio, ben oltre la reale dimensione fisica dell’opera. In questo senso, la scelta di utilizzare uno strumento luminoso vero e proprio come il tubo al neon appare naturale, perché sostenuta da una necessità interiore e ideale: si tratta infatti di una vera e propria adesione ai motivi più profondi di una ricerca che, per Paolo Scirpa, è quella della luce come elemento unificante della realtà (se fossimo un po’ più religiosi potremmo dire “del creato”, come forse direbbe lui).
Eppure è sintomatico che l’artista non abbandoni la tecnica della pittura, una volta adottato lo strumento “reale” del neon luminoso: egli infatti continua a dipingere, soprattutto negli anni Ottanta sino ad oggi, opere che sembrano di fatto i “ritratti” pittorici e luministici dei “ludoscopi”. Quel che per alcuni è un percorso irreversibile – dall’oggetto rappresentato al materiale usato di per sé, con le sue proprie caratteristiche -, in Scirpa non solo è reversibile, ma coesiste tranquillamente: in altre parole – e qui sta la sua peculiarità –il problema di Scirpa non è tanto quello della rappresentazione o, al contrario, della “presentazione” dell’oggetto, quanto quello più generale, più universale e , se vogliamo, più tradizionale della luce.
Forse è anche per questo motivo, e non solo per una banale questione cronologica, che la sua appartenenza all’ambito ottico-cinetico, se da una parte è inequivocabile, dall’altra parte è anche anomala. Inequivocabile per l’uso degli strumenti, il modo, l’esito voluto e ottenuto, elementi che rientrano a pieno titolo in quella tendenza: anomala, d’altro canto, perché l’intenzione di Scirpa è tutta metaforica, e per nulla riducibile alla realtà effettuale della percezione. Gli ottico-cinetici per così dire di stretta osservanza, mostravano infatti scarsissime attenzioni per ogni aspetto che trascendesse i problemi della percezione umana o, al massimo, i problemi “storico-sociali” della percezione, intendendo con questi l’analisi non solo di ogni tipo di percezione fisiologica, ma anche l’analisi dei rapporti tra produzione della visione e ricezione della visione, con qualche sconfinamento, se si vuole, nel campo della sociologia (per non parlare del rapporto arte/industria o arte auratica/arte moltiplicata che ne erano corollari importanti); al contrario, Paolo Scirpa poneva, e pone, il problema addirittura trascendentale della “luce”, di cui la luce reale – ottenuta con gli strumenti che anch’egli usa – non è che un riflesso. Come a dire che ciò che gli interessa è la luce ideale, e che per affermare questo interesse, e l’importanza che quella luce ha per sé e per l’interpretazione del mondo di cui l’artista si fa tramite, è disposto a sopperire con i poveri mezzi concreti che il mondo gli mette a disposizione, fermo restando però che questi mezzi non sono che l’ombra, il rappresentato, l’imitazione, il riflesso, appunto, di quel significato più grande.
In questo senso, dunque, Scirpa appartiene in toto alla tradizione, addirittura a una tradizione medievale, quella, per intenderci, che aveva fatto della luce non tanto un’esperienza ottico-percettiva, ma mistica: si potrebbe dire allora che Scirpa è molto più vicino a Beato Angelico che non a Lazlo Moholy-Nagy! Assumendo questo punto di vista, tutta la sua attività si ricompone in un continuum (tra l’altro, non si dimentichi l’adesione dell’artista a quel concetto di “unità” scoperto per la prima volta nel contatto con la Lubich) che giustifica appieno, ad esempio, la coesistenza pacifica tra pittura e neon: non si tratta più, infatti, di sostituire la “cosa rappresentata” – cioè la pittura che imita la luce – con la “cosa reale”cioè con il neon che sarebbe invece la luce vera e propria – , perché entrambe queste situazioni non fanno altro che ricordare quella luce trascendente di cui ci vuole parlare Scirpa, e di cui entrambi gli strumenti, quello della pittura e quello tecnologico del gas surriscaldato che produce una luce fisica, non sono altro che il fantasma visibile, rappresentabile.
Di più, si potrebbe forse ribaltare ancor più l’ipotesi di ricerca di Scirpa suggerendo che neppure la luce è il suo fine ultimo, ma che questo si nasconde “dietro” la luce, ed è l’idea dell’infinito. In questo modo si spiegherebbe, ad esempio, la naturalezza con cui l’artista usa la superficie specchiante, sia nel ciclo del cosiddetto “consumismo”, sia nella lunga serie dei “ludoscopi”, sia in alcuni esperimenti precedenti, dei primissimi anni Settanta, in cui dipinge su lastre d’acciaio lucidissime: del resto, lui stesso suggerisce questa lettura in più occasioni, quando ad esempio afferma, proprio in un breve testo di spiegazione dei “ludoscopi” che “l’infinito nello spazio simulato è un’idea che ha nutrito a lungo i miei pensieri e la mia dimensione interiore”. Certo, il nostro occhio e la nostra mente sono maggiormente attratti dai modi con cui si attinge all’infinito, ed è per questa ragione che il pensiero si sofferma e spesso si ferma al momento immediatamente precedente, che è quello della luce, anche se la moltiplicazione delle forme luminose, ottenuta grazie all’uso degli specchi – che purtroppo non possono far altro che moltiplicare solo poche volte le forme originarie, prima che la luce fisica si perda in un fondo inevitabilmente scuro – non è altro che la rappresentazione povera, perché umana, di un infinito che non si può che simulare, che suggerire. Così, se i Bizantini usavano il “fondo oro” come infinita luce trascendente, se l’Umanesimo ha trasformato questa metafora in qualcosa di più vicino a noi, cioè di più fisico, sostituendo a quell’oro il blu dei cieli di Giotto, la nostra epoca, volendo rendere ancora un po’ più vicino, più umano, meno assoluto questo concetto ha dovuto fare di più, ha dovuto cercare questa infinità nella tecnologia. Da artista, Paolo Scirpa si adeguato, ma non ha dimenticato il punto di partenza che, nel caso dell’infinito, può anche essere il punto d’arrivo.
Infine, qualche considerazione va fatta a proposito di una numerosa e costante serie di lavori che Scirpa cataloga sotto il nome generico di “progetti”. Si tratta in realtà di “fantasie” (anche se oggi qualche magnate o qualche istituzione in vena di spettacolarismi potrebbe realizzarle, sfidando alcune leggi della fisica, e molte leggi sul patrimonio antico…), quasi di “capricci” alla maniera settecentesca – quelle vedute di fantasia dove il pittore avvicinava scorci riconoscibili a paesaggi che non gli erano propri, come rovine romane sulla laguna veneta… – che costruiscono paesaggi urbani o naturali in cui sono inserite, in una scala che nella realtà sarebbe gigantesca, “ludoscopi” luminosi. Scirpa sceglie i luoghi che gli sono cari, oppure siti famosi, come chiese rinascimentali, necropoli arcaiche, piazze famose: nel cuore di questi luoghi colloca le geometrie sprofondanti dei suoi triangoli, quadrati, cerchi. L’effetto, singolarmente straniante, è ottenuto con la tecnica “moderna” del fotomontaggio, cosa che conferisce a ciascuno di questi progetti quel sapore assolutamente artificiale che hanno tutti i fotomontaggi, da quelli dadaisti a quelli surrealisti, dove è ben visibile persino il “ritaglio” e il fuori scala delle singole componenti (non si ottiene lo stesso risultato con le raffinate elaborazioni elettroniche, con Photoshop, che paradossalmente sono più “naturali”): straniante per l’evidente artificio dell’inserimento di un oggetto visibilmente piccolo in una scala gigante, ma straniante anche per una più alta e diversa artificialità, quale poteva essere, ad esempio, l’architettura “estrema” di un Étienne – Louis Boullée e della sua Biblioteca del re, o ancora più del suo famosissimo Cenotafio di Newton. A questo punto, una breve digressione sull’ultimissimo lavoro dell’artista potrebbe completare la comprensione del suo intero modello di pensiero e di sentimento: si tratta di un grande modello ligneo costruito sulla forma raddoppiata del teatro geco, con tanto di gradinata e di cavea, dove però le gradinate sono rivolte all’interno, verso la scena, ma anche ribaltate all’esterno, verso il mondo. Il risultato è una strana forma geometrica ad anello, una sorta di cratere vulcanico regolare ed umano, dove l’interno e l’esterno hanno lo stesso identico peso e valore. A parte la chiara evocazione del teatro greco che riporta a memorie arcaiche e fondanti di una cultura e di una persona (come non ricordare le origini siracusane di Scirpa?), l’effetto dell’opera oscilla tra l’aspetto formale geometrico e perfetto e il significato metaforico del “guardare” dentro e fuori, verso il sé e verso il mondo, col risultato di un benefico straniamento addirittura sottilmente accentuato rispetto ai suoi progetti appena citati. Lo straniamento è dovuto, cioè, non tanto all’artificiosità del procedimento, ma all’artificialità e duplicità del risultato, che mette a confronto la purezza delle forme con l’accidentalità del mondo: quando si incontrano le forme pure della geometria con la storia dei luoghi, vale a dire l’infinito in questo caso rappresentato dalle forme geometricamente perfette, o di luce, dell’artista e tutte le stratificazioni formali, temporali, occasionali che si sedimentano in un luogo vissuto, ecco che avviene quello scontro dialettico tra idea delle cose e realtà delle cose. Platone lo aveva capito, e Scirpa lo ha messo in scena.