Certo c'è ancora chi ricorda la serena quiete della riviera ionica, tra Augusta e Siracusa, di rocce a picco e di coltri di sabbia e larghe braccia di mare su scogli e tonnare, tra distese di aranci e pale di fichidindia, come nell'alone di certe stampe settecentesche, in cui i “pastori aretusei” tra ruderi di templi fischiano nei loro zufoli di canna come personaggi di un Idillio di Teocrito.
Poi, d'un tratto – sono pochi anni – il paesaggio cedette come sotto la furia di un cataclisma: le trivelle affondarono le zanne nel sottosuolo e rapinarono le fresche polle agli aranceti, i fichidindia crollarono dai loro confini e si levarono al cielo gotiche nervature di acciaio, torce e roghi perenni di gas come in una apocalisse.
Quale potrebbe essere la condizione di un pittore, vissuto alla periferia di Siracusa, quando sotto i suoi occhi ha visto torcersi e schiantarsi alberi, muri, erbe, luci e fantasmi che da anni è andato inseguendo e segnando nel suo taccuino di artista? Pare che Paolo Scirpa abbia avuto in sorte la stessa vicenda della sua città, coi suoi rivolgimenti, contraddizioni, barlumi, foschie. Basta guardare i primi disegni del pittore siracusano: l'agile segno delle “pale” dei fichidindia, così arioso nel suo nitore naturalistico, cede via via il passo a un tratto più secco, di nervoso risentimento. La composizione delle sue lastre incise s'infittisce nel disegno delle “cattedrali” d'acciaio sulla solitudine della campagna, o di certe assurde topografie di città morte: un caos edilizio – proprio sul corpo della Magna Grecia – in cui tuttavia s'inseriscono, forse con valore emblematico, precise celle alveari, quasi un messaggio per un ritorno al razionale, all'uomo.
Spesso la pagina incisa di Scirpa è chiusa in una circonferenza che sembra roteare come un sole, ma a vuoto, un sole spento o un magma di ferro e zolfo, come se in questi astri si fosse scatenata una di quelle tempeste che sconvolgono l'equilibrio dell'ago magnetico e delle maree. A volte è un sole pietrificato, di cui appena s'individua l'intersecarsi dei bronchi consunti – stonate tastiere di un clavicembalo in rovina. Eppure dalle trame torbide di queste incisioni, da questi labirinti, Paolo Scirpa cerca di venire a capo. E contro l'irrazionale torre di Babele, l'artista siracusano pensa forse al lavoro, alla casa, alla polis dell'uomo, dell'humanitas, dentro la primigenia luce dell'Ionio.
Palazzolo Acreide, 1967