E' evidente che il titolo “La luce nel pozzo” allude alla “luna nel pozzo” di proverbiale memoria: nella parabola laica si vede la luna nel pozzo, e si pensa che la luna si possa afferrare, prendere semplicemente calando il secchio e tirandola su, e analogamente, nelle opere di Paolo Scirpa, non solo si vede la luce potenzialmente infinita dentro il pozzo, ma non ci si accorge che anche il pozzo è creato percettivamente da luce e specchio. In entrambi i casi pensiamo di vedere quel che di fatto non esiste se non come immagine, e anche se nelle opere di Scirpa non esiste quell’intenzione moralistica che c’è nel racconto della Luna nel pozzo (credere di poter possedere facilmente qualcosa che è invece incommensurabilmente difficile, se non impossibile…) il tema dell’”illusione” è centrale in entrambi i casi. Tuttavia, “essere illusi” su un’azione volontaria – catturare la luna nel pozzo – comporta un senso di frustrazione, di impotenza e un ridimensionamento della propria autostima, mentre “essere illusi” dai propri sensi, cioè fisiologicamente, produce un senso di meraviglia che è sostanzialmente positivo, pur nascendo da un errore di base, da un cortocircuito nella percezione della realtà fisica. Questa “frustrazione positiva” innesca infatti un meccanismo di consapevolezza elementare che è ben lontano dal senso di consapevolezza della propria inadeguatezza nel giudicare e nell’agire, risultato ultimo della “luna nel pozzo”: nell’illusione percettiva non c’è colpa, nell’illusione volitiva invece sì.
Di più, lo stupore dell’illusione percettiva impone l’abitudine a un controllo, a una verifica automatica dei propri sensi a valle della prima impressione, che stabilisce una sorta di disciplina volta ad acuire la proprie capacità sensoriali, e non a diminuirle o a ritenerle fallaci: l’inganno serve a non essere più ingannati o, meglio, serve a sapere di essere ingannati. In effetti, attraverso questa disciplina di controllo sensoriale, cioè avendo acquisito la consapevolezza che l’occhio e la mente possono essere ingannati, non accade che non si veda più il pozzo creato dagli specchi e dai neon di Scirpa, perché noi continuiamo a vedere quel pozzo, ma godiamo nell’essere ingannati, invece di irritarci. E’ la quintessenza di ogni linguaggio che abbia nel suo statuto l’artificio e la finzione, come l’arte, o il teatro, e Scirpa – così come altri che utilizzano gli stessi strumenti di indagine, e si focalizzano sugli aspetti percettivi della visione – accentua questa centralità proprio perché non racconta nulla, ma semplicemente “mette in scena” la finzione nel suo stato più puro.
Ecco allora che l’utilizzo di materiali eterodossi, tecnologici, o presunti tali (in fondo, la tecnologia di Scirpa è tutt’altro che nuova, e anzi sta diventando rapidamente obsoleta, foriera addirittura di qualche nostalgia degli anni Settanta, se si considera per esempio l’illuminazione a led: solo il mondo dell’arte , che è tradizionalmente conservatore, pensa ancora al neon – o al video, o persino alla fotografia – come a uno strumento “nuovo” … ) produce un ulteriore straniamento, rispetto a quella sensazione iniziale, perché dalla tecnologia non ci attendiamo finzioni, ma semmai un supplemento di realtà, un incremento delle nostre facoltà sensoriali, una maggiore acutezza nella percezione del reale. Con le sue opere Scirpa ci dice che è possibile, ma solo attraverso la finzione, solo attraverso una sorta di “passaggio iniziatico” che – come in quasi tutti i passaggi esperienziali – propone inizialmente il falso come vero e, viceversa, il vero come falso: una volta scoperto l’inganno, siamo più forti nei confronti del mondo, perché abbiamo compreso qualcosa di più di noi, di come vediamo il mondo. Anche per questo motivo l’artista vuole che l’inganno si scopra, ed è per questo che tutto è molto semplice, visibile, quasi elementare: nel cubo ideale e reale delle sue opere cinque pareti di specchio e la sesta aperta, come il boccascena di un teatro, destinata al nostro sguardo che penetra nello spazio fittizio.
In quel momento si è soli con se stessi, ed è un confronto interiore quello che si innesca in quegli attimi in cui il rapporto senso/intelletto/senso cambia radicalmente il nostro modo di vedere: è infatti un viaggio di andata e ritorno in cui i dati comunicati dai sensi vengono elaborati dall’intelletto, corretti e restituiti ai sensi con quel grado di consapevolezza della finzione percettiva che ci consente di godere dell’inganno. A riprova di questo, sembra che Scirpa abbia costruito i suoi montaggi architettonici – un ciclo di lavori di fotomontaggio che porta avanti parallelamente a quelli tridimensionali – per rendere ancor più visibile questo cortocircuito virtuoso della percezione: luoghi famosi come il secentesco Gabinetto anatomico di Galileo a Padova o il Ponte dei Sospiri a Venezia “proseguono” nel loro andamento e fanno sprofondare lo spazio reale in un “buco” senza fine, in questo caso più vicino a un passaggio temporale alla Star Trek che a un semplice esperimento di percezione visiva distorta. L’applicazione paradossale dello spazio “in vitro” solitamente proposto dall’artista, cioè, con una realtà famosa, da cartolina, impone alla spettatore un’ibridazione visiva drastica, degna dei più avveniristici progetti architettonici anni Settanta, che costringe a pensare al paradosso che ci si trova davanti, con uno straniamento dell’intelletto per molti versi analogo allo straniamento dei sensi appena provato di fronte alle sue opere luminose: è una sorta di “upgrade” dell’inganno percettivo? Probabilmente sì, solo che in questo caso Scirpa si sta avventurando in un terreno che non è più fisiologico né sensoriale, ma culturale, e quindi cambia in un certo senso categoria di linguaggio: al contrario di quanto avviene per quasi tutti i suoi spettatori, è quello, per lui, il territorio incognito da esplorare.