Il pittore

Di Silvio Ceccato

01 Ottobre 1978

Con Silvio Ceccato, Vismara Arte, Milano, 1981

Come dipingevi? Perché lavoravi così? Ed ora perché operi così? Chi, come me, non faccia professione di critico d’arte e di critico in generale, è poco propenso a formulare giudizi di valore. In particolare, dopo le analisi sulla vita mentale, riuscirei forse a veder come bella o brutta qualsiasi cosa, vederla o poetica, lirica, drammatica, tragica, eroica, comica, ecc.. In ogni caso riuscirei a promuoverla ad opera d’arte. Un giudizio che varrebbe dunque così poco…
Mi interessa piuttosto il modo come lavora l’artista, come crede di lavorare, perché si ritiene un artista, perché ha avute, se le ha avute, le sue “maniere”. In altre parole, prima, dopo e durante il suo lavoro, quali pensieri svolga.
In questo caso, perché chi adopera tele, legno, colori e pennelli,ad un certo momento si rivolge a luci e specchi. Butto là un’ interpretazione. Perché la luce e lo specchio mi tirano dentro, mi generano un momento di fissità, quasi di ipnosi, l’inseguimento di una immagine. Qualcosa che, credo, richiami la celebre “Einfühlung” degli estetologi tedeschi. Mi sento attratto, il pensiero rallenta o si ferma. Il suo modulo sostitutivo, dei frammenti di circa mezzo secondo che si susseguono lasciando l’uno il posto all’altra, viene sostituito da quello sommativo, in cui invece i precedenti vengono trasferiti sui successivi, proprio del ritmo ( si pensi alla rima ) con frammenti più lunghi, circa otto ogni cinque secondi. Questa frammentazione ritmica, comunque, può venire sollecitata fortemente, violentemente, irresistibilmente, per esempio dal valzer viennese, da un galoppo, e talvolta anche da certe strutture segnatamente geometriche che sottostanno agli edifici architettonici od anche ai dipinti, si pensi all’affresco La Maestà in Trono, di Simone Martini ( partenza dal gruppo di angeli sulla sinistra, passaggio a quelli di destra, salita al volto della Madonna, discesa al piedestallo, salita sulla sinistra del baldacchino, passaggio alla destra, ridiscesa sul piedestallo, gioco fra i due triangoli così costituiti, etc. ). Ma può anche essere impressa nella più semplice delle figure, un segmento, un suono, una parola (si pensi a “meràvigliòsamènte” pronunciato in un certo modo, appunto con scansione ritmica), sì, anche su una liscia superficie di specchio.
Il problema che allora si pone di fronte ai lavori di Paolo Scirpa è il grado di sollecitazione che ne sprigioni, quanto cioè dipenda dall’opera e quanto dal trovarla in una galleria, studio, comunque ambiente, o semplicemente dal sapere che chi la presenta è considerato un  artista.
La stessa domanda si pone, ovviamente ed a maggior ragione, per molte opere, in particolare certe strutture informali, certi prodotti monocromatici, oggetti di uso pratico che per l’ambiente in cui sono posti, o perché tecnicamente superati, non svolgono più funzioni pratiche, come il vecchio arcolaio, la carriola, la pala, una scarpa incollata su una tela, e simili, posate raccolte in un sacchetto di plastica, e simili.
Scherzando si racconta dei due commercianti che parlano di un  loro amico che acquista pitture informali, astratte. “Sì, lo capisco – ammette uno dei due – i gusti sono gusti. Ma ciò che non capisco è perché non se le faccia lui”.
Ma la situazione, al di fuori dello scherzo, non è così semplice. Fra un atteggiamento ed un oggetto fisico i rapporti sono estremamente vari, fluidi, di stile e di moda, discorsi che precedono, accompagnano, seguono.
Tornando alla domanda di apertura. Scirpa dipingeva e continua a dipingere; che cosa lo ha spinto ad aggiungere alla pittura gli specchi, le lampadine, l’immagine che si riflette e ripete, il lampeggiare? Di quale rinuncia e di quale conquista è il frutto?
Azzardo una mia ipotesi. Dovremmo essere in presenza di una frammentazione ritmica intensa ma breve, destinata a perdersi nel gioco lungo, ma in grado di operare in quello breve, nello stato aurorale del progetto. Conseguenze per il fruitore? Un soffermarsi altrettanto breve, una sollecitazione corta. Sennonché subentra l’attrazione del meccanismo riflettente e lampeggiante, di una terza dimensione che si impone con effetti di immobilità   attenzionale.
Ed è su questa che la deliberata frammentazione ritmica continua.
Così, dopo la visita ad una esposizione delle opere scirpiane un ricordo rimane. Sì, lui, quelle. Ed è già qualcosa.
Milano, ottobre 1978