I bui specchi di Scirpa

Di Corrado Maltese

19 Maggio 1984

Con Corrado Maltese, Galleria San Fedele, Milano, 1977

Può un’immagine prodotta da uno specchio essere spazio e dunque cosa? Può la luce essere buio? Anzi: può una luce infinita essere buio infinito? Anni fa dovetti affrontare la questione per comprendere ciò che Paolo Scirpa chiamava allora “macro-oggetti” ed erano già i suoi vetri semiriflettenti a separare lo spettatore da un insieme di micro-oggetti che da soli erano tali ma che insieme costituivano quell’unico, grande oggetto che è lo spazio materiale, codificato dal nostro cervello e dalla nostra storia biologica come il campo vitale, immenso e ineliminabile della nostra percezione delle cose e di noi stessi, del nostro agire e del nostro esistere. Scirpa scoprì allora che un vetro semiriflettente e semitrasmittente permetteva di approssimarsi all’impossibile situazione di uno specchio che specchia se stesso all’infinito;situazione impossibile – s’intende – non da realizzare, ma da vedere e controllare umanamente: cioè in virtù della percezione, che infinita non è, ma è per definizione finitezza.
Così Scirpa costruì i suoi tunnel di luce, perduti all’infinito, nel buio, laddove la finita e chiusa camera dell’occhio cessa di registrare i sempre più tenui riverberi del vertice piramidale dell’immagine, diminuiti quadraticamente d’intensità in ragione di una loro reale e al tempo stesso immaginaria moltiplicazione.
Come non coinvolgere in questa dialettica della luce e del buio la dialettica del vero e del falso, del reale e dell’irreale? Scrissi, infatti : “ Cosa sono le scatole specchianti di Scirpa se non un Oggetto dove si pratica l’abolizione del limite tra il reale e l’illusorio? Cosa, se non un  Oggetto dove in perpetuo e senza remissione si apre la voragine di Dürrenmatt, l’abisso senza fondo, dove infiniti micro-oggetti, scatole, scatoline, barattoli, “cose” tipiche e proprie della nostra mitologia industrializzata, urbanizzata, consumistica precipitano in un  ordine perfetto come in una via lattea perfettamente squadrata e scandita senza principio né fine? Stesso discorso per le superfici “double-face”: due voragini invece di una e persino reversibili e magicamente coincidenti; la trasparenza unidirezionale torna a diventare bidirezionale, ma con un  effetto doppiamente ambiguo, doppiamente abissale. La proiezione nel vuoto come proiezione infinita nel nulla: l’Essere come essere del Nulla.
Stesso discorso ancora per i cerchi-luce, i rettangoli-luce, i quadrati-luce: sono anche questi “micro-oggetti”? Certo, questa volta il micro-oggetto si avvicina all’Oggetto, tocca i suoi confini, lo attacca e lo comprime dall’interno (una “compressione” alla rovescia!) mettendolo in crisi e, forse, si identifica con esso: è la luce che disegna il buio o è il buio che disegna la luce? La voragine è una sottrazione dal pieno-luce o è un pieno-luce che sottrae vuoto buio e lo definisce, lo circoscrive, lo fa essere?
Forse, ecco il Grande Oggetto si identifica con la Grande Luce, è il grande Ambiguo. Come il Nulla dell’Essere o l’Essere del Nulla. Ma se lo spazio-luce simula se stesso prolungandosi in una auto-immagine infinita la simulazione è, proprio per questo, totale e irreversibile.
Scirpa ha continuato a verificare questa vanificazione del reale, una vanificazione senza pause e senza fondo: ha applicato i suoi non-spazi, non-luce alle cupole delle cattedrali e alle strutture urbane, ai profili del cielo e ai profili della terra; come tanti “buchi neri” dove l’essere consuma se stesso totalmente ad ogni istante, per ogni istante in cui si rinnova, così semplicemente rispecchiandosi come Narciso. Un Narciso, s’intende, microcosmico e cosmico al tempo stesso, dove si compie il destino vero e al tempo stesso illusorio del più umile e del più eccelso degli esseri: uno spazio-luce come forma simbolica del bios.
Roma, 19 maggio, 1984