Accumulazione astrattizzante e dinamica visiva di Paolo Scirpa

Di Roberto Sanesi

01 Aprile 1975

Presentando se stesso, nel 1972, alla Galleria San Fedele di Milano, Paolo Scirpa dichiarava, fra l’altro, che scopo del proprio lavoro era “tentare di esprimere… il fenomeno tecnologico che coinvolge l’intera società” – un’intenzione tanto chiara, diretta, quanto decisamente generica, essendo raro che un artista (della natura di Scirpa, almeno) possa rinunciare, nonché evitare d’affermarlo, a un rapporto socio-ambientale, sia pure di riflesso. E chiunque si sia occupato del suo lavoro (Fagone, Fiori, ecc.) ha accettato questa prospettiva di base elaborandone criticamente i risultati con riferimento a una strutturazione urbanistica, architettonica, geometrica, ecc., delle immagini poste in gioco. Immagini che, per un certo periodo, se assunte a referenti di società consumistica, simboli alienanti di un confuso accumularsi di false necessità, reperti iconografici di un tecnologico scaduto a mezzi di benessere assai marginali per quanto ben confezionati (e in  effetti non è mai il “cosa” ma il “come” che viene evidenziato), dovrebbero ricadere nell’ambito, già usurato della pop.
Diciamo, per lo meno, che l’armamentario è apparentemente questo, ma tutto esterno, relativo non al prodotto ma alla sua presentazione, dalla scatola all’impostazione grafica, dal colore alla scelta dei caratteri – e si tratta già, a mio parere, di un segno piuttosto significativo di una certa distinzione dall’atteggiamento pop canonico, tanto che appunto anche a livello compositivo o pittorico viene evitata qualsiasi deformazione o gestualità o impazienza di lontana suggestione espressionistica a favore di una dizione fredda, rigorosa caso mai più attinente a una sorta di optical oggettualmente risolto.
La prima caratterizzazione del lavoro di Scirpa è dunque in un uso inatteso di materiali pop – in un uso che li depriva di ogni aggressività simbolica pur non negandone affatto il senso, in un uso che li sposta, visivamente, in un’area del tutto diversa, e che, in ultima analisi, tende ad astrattizzare. Al punto che i risultati più convincenti, fra il 1973 e il 1974, non solo dipendono in modo coerente dal notevole esercizio grafico perseguito da Scirpa in anni precedenti e su immagini estranee alla tematica prima evidenziata, ma ne conducono avanti l’esperienza denotando un passaggio (essenziale per la sua comprensione) da composizioni impostate su moduli di strutturazione astratta a composizioni in cui acquista peso e ragione il tentativo costruttivo o, secondo la definizione dell’artista, poli-oggettuale. Nulla cambia, in realtà nella strutturazione di un’opera – se nelle opere grafiche lo sconfinamento circolare, con il convergere al centro di linee e masse di forza, accentuava la volontà dinamica, ora a tale volontà dinamica si aggrega una volontà costruttivista, e il centro, punto focale dell’immagine, è dato da un approfondimento prospettico. Da cui, di conseguenza, gli accenti posti dalla critica sull’idea di architettura, e quelli posti sull’idea di architettura, e quelli posti sull’idea di urbanistica – idea che proviene, certamente, anche dalla suggestione offerta dal materiale pop, con i suoi rimandi consumistici e tecnologici.
E’ a questo punto che le due tendenze in gioco, prima organizzate in  modo equilibrato, sembrano entrare in conflitto. Se da un lato Scirpa è spinto ad accentuare il senso dell’accumulazione disponendo le sue composizioni su una superficie riflettente in modo da ottenere una moltiplicazione centralizzata (è qui che si chiarisce l’intuizione “urbanistica” rilevata dalla critica) , quasi punto di fuga che avvalora a livello simbolico una lettura “contenutistica”, dall’altro comincia a sostituire i materiali più carichi di allusività di tipo più o meno sociologico con elementi del tutto estranei ad una possibile interpretazione in chiave di denuncia, per altro ambigui e già in precedenza privati, per la rigorosa disposizione grafica, di una violenza diretta.
Ciò che interessa l’artista, sulla base delle esperienze tentate, è certamente ancora un aspetto definibile come tecnologico – non più, però, come metafora di una condizione, ma come mezzo espressivo diretto ed autonomo, in grado di ottenere e riferire un meccanismo delle immagini, una serie di mutazioni di figure geometriche elementari (il cerchio,il quadrato, il rombo) e una loro moltiplicazione prospettica.
Giunto così al recupero, per vie diverse se non traverse, di un’arte cinetica, Scirpa sa di aver toccato e di sperimentare una fase probabilmente transitoria del proprio lavoro – il che non significa che si tratti, come potrebbe apparire, di un “ricominciare da capo”. Se è vero che non esistono punti d’arrivo soddisfacenti nella ricerca di nuovi mezzi e di nuove finalità, nella ricerca estetica, il lavoro attuale di Scirpa è da considerare un momento di riflessione e di prova, più che una verifica. E non è poco.
Milano, aprile 1975