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Di Ginevra Bria

06 Settembre 2009

Nei lavori di Paolo Scirpa (Siracusa 1934) il multiplo è il principio che regola la dilatazione e la riproduzione della luce. Nei suoi ludoscopi il buio appare come un nuovo supporto, un segno che sarà sempre e comunque un inedito. Un elemento mai sicuro, un segnale da mantenere acceso e da continuare ad estendere, oltre il nero della superficie. Nella pratica artistica di Scirpa non esistono gesti acidi, né scatti maldestri. Esistono solo piccole detonazioni utili ad attivare la materia geometrica. Materiale da lui pazientemente assemblato e poi de-strutturato. Il neon infatti propaga la luce seguendo due tempi diversi. Dapprima la luce viene scissa e poi, infine, viene inviata. Le sue propagazioni luminose oscillano univocamente dal piano retrostante degli specchi al volume di base dei solidi. La fine forse non esiste. L'effetto è quello di far arrivare il fascio di luce fino al bordo estremo della sua corsa luminosa. Ovunque questo possa andare. La continuità del riverbero, infatti, conferisce ai monoliti geometrici di Scirpa il dono di moltiplicare lo splendore. É in questo modo che ogni tubo al neon prende l'avvio. Riflessi giallo fluorescente, gironi color ghiaccio, spirali rosa pallido ed enormi pannelli ipnotici color azzurro restituiscono all'occhio un fluido espanso per gradazione luminosa. Nella pratica artistica, ogni riquadro, ogni teca, ogni cornice è una partizione di colori, di scene astratte o di evoluzioni geometriche che vengono accese per puro piacere gestuale, affinché il colore si incida e di disperda, come essenza dilatata.  Il punto di fuga, nei pozzi verticali e orizzontali dell'artista siciliano, prolungano un ritorno al dato primo del dipingere. Qui non è in gioco la costruzione di un dipinto o la sua formulazione in termini grammaticali, ma l’azione mossa, il canto tattile del semplice esserci del gesto. E’ tempo che la scultura, attraverso l'utilizzo della luce da parte di Scirpa, torni al suo futuro anteriore. La tecnologia, per lui, è un modo di velocizzare quello che è già in potenza, non la simulazione di ciò che lento, inesorabile gesto pittorico,che poi viene solo mimato, attraverso filtri scuri, come il cristallo dello specchio.
Quando la tecnologia imita ciò che è naturale, essa fallisce e questo Scirpa lo conosce bene. La tecnica del rappresentare la velocità estensiva, amplifica ciò che è atto naturale, ingrandendolo come fiore da germoglio. La tecnologia del neon e della rifrazione è coestesa all’atto del creare, senza precederlo. La luce si serve dell’estensione figurale come la pittura fa con la dilatazione e lo sviamento dell’immagine, del suo essere colore, segno e forma, come campionamento aumentato in sé. Nel gesto dell’estensione, dell’incisione della luce, della sua partizione c’è la scaturigine del fare, il suo giorno di nascita. L’atto, non può essere imitato da nessuna macchina ludoscopica, ma essa può portarlo dove il corpo non può andare, dove non deve neanche affacciarsi, per trasformarsi in vettore. Lo schermo di ogni meccanismo rappresenta il limite dell’attuazione. Il supporto esterno, scelto, è la sua ultima definitiva collocazione. Sul supporto non serve colore aggiunto, per lo meno non secondo la pedissequa moda dell’eterno ritorno cromatico. La geometria, come un pigmento, come un atto addizionale, arriva all'occhio altera, mostrando la novità del suo preciso percorso, divinità insostituibile. Nei lavori di Scirpa quel che conta è vedere attraverso ancora prima che qualsiasi griglia organizzi la mente, ancora prima che la ratio o la morale, nel senso più deleterio del suo essere negazione, oltre che affermazione di se medesima, si faccia viva a dire di sè.
Le mani di Paolo Scirpa possiedono una vivacità tecnica che consente di fare l’epifania dello specchio, oltre la sua faccia liscia e buia. Partizioni di spazio, segmenti, molecole e luci, ogni cosa resta immagine, definitivamente incisa e quindi stampo conclusivo. Non c’è più tempo chiuso, solo scorrevolezze estese di luce in caduta. L’entropia è vinta dalla sua stessa essenza di griglia segreta, non inaccessibile. Quando mai un disordine nega il suo essere partito da luogo limpido, disposto secondo un criterio che già è passibile di verifica? All'interno dei ludoscopi spaventa la frenesia che si riesce a vedere, nella verticalità della caduta, possibile disordine dell’arrivo. Lo sfaldamento cromatico dei neon va assecondato attraverso agli occhi, aperti al punto d'essere nuovo ordine, reticolo possibile, carne per un’immagine che è risultato di composizioni successive, di montaggi selettivi, non di filtraggi ricreati. Niente precisionismo, niente compiacimento, nulla da dimostrare, nei ludoscopi. Propagazioni luminose paraboliche. Puri gesti moltiplicati, pura luce propagata, puro esserci come livello riprodotto dell’immagine estesa ed incisa, allungata asintotticamente. Realismo plastico, fatto estetico e manuale, visualità tattile agita come durezza da violare, rabdomantico funambolico essere sulle forme e sulla loro inconsistenza entropica, sulla curva accettata del loro mutamento di forma fino alla radice ulteriore del senso, luce estendibile delle identità. Nessun ritorno dopo l’affondamento dell’identità lineare di partenza. Dall’identità al non-identico, qui, i corpi rianimati dello spazio restano levigati, perfetti.
Milano, settembre, 2009